La parola è la marca distintiva dell’uomo, come ha spiegato Aristotele, e la stessa eco risuona nella fulminante sentenza di don Milani «Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua», ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale. La parola può tutto: «Spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia). Il suo potere è duplice, perché duplice la sua natura: creatrice e distruttrice, simbolica e diabolica, benedetta e maledetta. Pertanto essa può salvare e rovinare gli Stati, far scoppiare e far cessare le guerre, riscattare anche Elena, la donna più screditata dell’antichità. La parola è anche ambigua, perché essa è un phármakon, “rimedio” e “veleno”. Per questo i classici avevano teorizzato che la nostra vita, personale e collettiva, è tutta una “battaglia di parole” una contesa tra buono/cattivo, giusto/ingiusto, bello/turpe, vero/falso, folle/assennato, utile/non utile, insegnabile/non insegnabile. Ce ne parla Ivano Dionigi, uno dei più illustri latinisti e classicisti.
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