Cosa vuol dire “mettersi in gioco”, oggi, in una scena sociale caratterizzata dall’idea o dall’ideologia della competizione? Pier Aldo Rovatti prova a rintracciare l’aspetto positivo della questione, al di là degli equivoci che solleva. Il gioco non è riducibile alla competizione, anzi potrebbe essere una contromanovra rispetto a questo imperativo sociale: non c’è gioco senza il piacere di giocare, senza la capacità di far fronte al caso, e saper giocare significa anche attraversare il rischio e la perdita. In un senso più specificamente filosofico, il gioco dovrebbe essere un’esperienza di attenuazione dell’egoismo individualistico e della pretesa di possedere la verità, poiché non c’è vero gioco che non sia anche un saper essere giocati, una capacità di mettere in gioco la propria soggettività. L’esempio, tra i molti possibili, è quello dell’assenza del gioco nelle pratiche dell’insegnare e dell’imparare che prevalgono attualmente nella scuola italiana.
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